(2010; Genere: Sophisticated Pop, Art Rock)
C'è da dire che il singolo di lancio del disco, "You can dance" non lascia certo indifferenti. Un Pop indiscutibilmente Glamour, che richiama alle origini Roxy Music di Ferry. Una torbida nube di sensualità avvolge tutto il brano, così come il disco nella sua interezza.
Lasciatosi alle spalle l'esperienza mal riuscita di "Dylanesque" (2007), un album composto da sole cover di pezzi di Bob Dylan, il crooner ritrova l'ispirazione raffinata e vezzosa che da sempre lo contraddistingue in un disco che già dall'esterno rivela le proprie ambizioni. Una sorprendentemente affascinante (e quasi irriconoscibile) Kate Moss ci guarda infatti dalla copertina con aria accattivante.
Incredibile il seguito di Artisti chiamati a collaborare in questo disco: dagli ex compagni di band
Brian Eno e
Phil Manzanera a
Flea degli
RHCP, dai
Groove Armada a
David Gilmour, passando per il "supereroe del Soul"
Marcus Miller e
Jonny Greenwood dei
Radiohead, senza contare
Nile Rodgers e
Scissor Sisters. Tutti nomi altisonanti per fare scena o reali collaborazioni interessanti? La risposta arriva ben presto, grazie alla canzone che in scaletta succede a
"You can dance", ovvero "
Alphaville": l'esegesi del dandysmo avvolto in un tappeto sonoro disegnato ad arte da ben cinque valenti chitarristi e dal synth raffinato di
Eno. O si ascolti, ancora, "
Me oh My" in cui la presenza di
David Gilmour alla chitarra è fondamentale per un brano che attinge la propria forza in un'atmosfera decadente e in un cantato cadenzato.
Il disco sguazza bene in brani patinatissimi come "BF Bass (Ode to Olympia)", fin troppo ampollosa, e la romanticissima "Tender is the night", elegante serenata d'altri tempi con un guizzo di malinconia. Brani che spiccano sono sicuramente la disincantata "Heartache by Numbers", scritta in collaborazione con Jake Shears e Babydaddy degli Scissors Sisters e quello che potremo definire l'unico azzardo di "Olympia", ovvero "Shameless". Si tratta di una disarmante up tempo in bilico tra anni '80 e sfacciata modernità, dove paradossalmente sono le strumentazioni elettroniche a dare un tocco di psichedelia. Discorso a parte per "Reason of Rhyme", voluttuosa poesia che risulta a tratti malinconica, a tratti rassicurante: "...Nessun altro amore può arginare la marea della solitudine in cui mi nascondo, dentro e fuori, oscurato dalle nubi o sotto il manto del sole e della luna e di tutte le stelle".
Dietro quest'album si cela un gran lavoro, di orchestrazione e arrangiamenti, alla ricerca di quella perfezione formale che da sempre il nostro Ferry rincorre. E qui sembra averla finalmente trovata o, meglio ritrovata, dal momento che un lavoro così ben fatto non lo registrava dall'85, ai tempi di "Boys and Girls", di cui è impossibile non ricordare l'hit "Slave to Love". Ma siamo sicuri che tutto questo manierismo sia utile ai fini del prodotto finale? In media stat virtus, dicevano gli antichi romani, e non si sbagliavano: il fatto che "Olympia" sia così perfettamente rifinito è una peculiarità dell'album che però, per lo stesso motivo, potrebbe stancare dopo non molti ascolti. Sicuramente non deluderà gli appassionati del genere e dell'impomatato Ferry che, dal canto suo, ce la mette tutta per rendere "Olympia" indimenticabile, piazzandoci nel bel mezzo due cover: quella di "Song to the Siren" di Tim Buckley, dall'album "Starsailor" (1970), elegante e caramellosa seppur lontanissima dall'originale, e la languida e affascinante interpretazione di "No face, No name, No Number" dei Traffic.
Bryan Ferry, "Olympia" : 7.5
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