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    mercoledì 31 agosto 2011

    David Bowie, "Young Americans"


    (1975, Genere: Soul, Rock)

    La rivalutazione del Soul. In "Young Americans" il benvenuto ce lo offre la scanzonata title-track che, per più di cinque minuti, sciorina un R&B sguaiato ma mai veramente scomposto; sì, è difficile immaginare che a cantare sia il genio del Glam Rock.
    In realtà questo disco, pubblicato nel 1975, rappresenta la terza trasfigurazione di Bowie, dopo il periodo Glam intrapreso con "Hunky Dory" (1971) e portato ai massimi livelli in "The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars" (1972) per poi dissolversi dolcemente in "Aladdin Sane" (1973). Per non parlare, poi, degli indelebili "Diamond Dogs" (1974), apocalittico, e del disco che seguirà, nel '76, ovvero "Station to Station", glaciale. Opere discrepanti, paranoiche e futuriste quest'ultime, che hanno decisamente ben poco in comune con canzoni dal tocco jazz intrise di solarità, come la raffinatissima ballata pop "Win", tra le sue migliori, o "Fascination", particolare ed eccentrica, difficilmente catalogabile in un unico genere.

    Ma siamo proprio sicuri che dietro i coretti incalzanti di "Right" non si nasconda il fantasma inquietante della creatura fulva semi-animale di "Diamond Dogs"? E che nel sax urlante della bellissima "Somebody up there likes me" non si celi l'aurea angosciante della cocaina, essendo esattamente quello il periodo in cui Bowie ne fu così assuefatto da rischiare la vita più di una volta? David Robert Jones è l'Attore della Musica per antonomasia. Si reincarna ora in un personaggio, ora in un altro, complice la solita ambiguità chiaroscurale che tanto disorienta quanto affascina. In Bowie il concetto di maschera pirandelliana prende vita e alla fine ci si accorge che, pur conoscendo numerosi aspetti della sua vita privata, di lui si sa tutto e niente. Pur conoscendo a menadito i suoi alter-ego musicali (Ziggy Stardust, Aladdin Sane, The White Thin Duke...), è difficile capire dove finisce la sublimazione artistica e dove inizia l'uomo. Non ci rimane altro da fare che continuare a farci sedurre dalla sua potente voce femminea e dalle sue continue sperimentazioni musicali. Perché "Young Americans" è solo una delle sue tante prove, anche se ai fans di allora apparve una mossa azzardata. Lui preferisce definirla "Plastic-Soul" e mai definizione fu più azzeccata. Per ammissione dello stesso, "Young Americans" doveva solo servirgli a consolidare la propria posizione nelle classifiche americane. Eppure è impossibile non emozionarsi al grido soffuso di "Can you hear me", così distinto ma a suo modo tumultuoso. Mentre la versione di "Across the Universe" dei Beatles appare fin troppo oscura e viscerale, pur se si avvale della presenza di Carlos Alomar alla chitarra e di John Lennon, il quale, tra l'altro, firma "Fame", brano funky che lascia poco all'immaginazione ma che non svilisce totalmente le aspettative. Nel complesso comunque un bell'ascolto, che coniuga un ritmo freak, compulsivo e quasi gioioso ad un testo amaro che racconta della velleità e falsità del successo.

    Solitamente bollato come lavoro commerciale, "Young Americans" altro non è che un disco di passaggio tra i lavori bowiani più disperati e in fondo anch'esso lo è. E' un dolore sottile, appannato, adombrato per mezzo dei cori Soul, così apparentemente gai, e della voce modulata in stile black. Con sax e piano sempre protagonisti, così come gli arrangiamenti raffinatissimi.
    La critica del tempo definì questo Album come "il primo disco di Soul nero inciso da un bianco", il che è certamente esagerato. Ma, signori miei, non v'è dubbio che "Young Americans" vada rivalutato.

    Raising Girl consiglia l'ascolto di: "Win".

    "Young Americans", David Bowie: 7.5

    Artisti simili a David Bowie: Lou Reed & Velvet Underground.

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