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    domenica 2 settembre 2012

    IAN CURTIS, un duello di personalità



    Neanche a vederlo da lontano avrebbe mai dato l'impressione di essere uno dei tanti. Ian Curtis, nato a Manchester nell'estate del '56, era un ragazzo sui generis a tutti gli effetti. Era molto alto e dava l'idea di essere un po' stralunato, di aspetto romantico e con uno sguardo troppo adulto per un ragazzo. Amava la musica e nel 1977 fondò insieme a
    i suoi compagni (Peter Hook al basso e Bernard Sumner alla chitarra) una band chiamata Warsaw, nome ispirato al brano "Warszawa" di David Bowie, di cui Curtis era un grande fan. In seguito, con l'aggiunta del batterista Brotherdale e l'incisione di alcuni demo, il gruppo cambiò nome in Joy Division, e avrebbe fatto storia. Ma questo Ian ancora non lo sapeva. E non farà in tempo a saperlo.
    Troppe cose arrivate troppo in fretta l'avrebbero disintegrato... L'amore, la paternità, il successo, i sensi di colpa, la malattia. Ian si sposò giovanissimo con Deborah Woodruff, quando entrambi avevano solo 19 anni. La loro unica figlia, Natalie, nacque dopo quattro anni, ma il loro a
    more era già sbiadito e Ian infatti stava iniziando una relazione con la giornalista belga Annik Honorée, che sarebbe stata la causa del suo divorzio. Un divorzio che Ian non voleva, una separazione che lo rendeva di giorno in giorno ancora più fragile, preso com'era dalle contraddizioni del suo animo. Ma lui l'aveva già scritto nelle sue canzoni, che quella crisi sarebbe stata incipiente e sarebbe arrivata a distruggere l'equilibrio che aveva cercato di preservarsi. Senza rendersi conto che in realtà quella crisi c'era sempre stata, si era semplicemente acquattata per sferrare i suoi attacchi "prendendosela brutalmente comoda", per graffiarlo e divorarlo al momento opportuno, lasciandolo tramortito dal dolore e tremante, come dopo una delle sue violente crisi di epilessia, malattia che affliggeva e torturava Curtis. Una malattia che Ian cercava di esorcizzare sul palco, con delle movenze frenetiche che richiamavano i tremori e gli scatti degli attacchi epilettici, che talvolta lo coglievano anche mentre cantava. Anzi, nell'ultimo periodo della sua vita si erano fatti più frequenti, incontrollabili.

    Intanto i Joy Division stavano raccogliendo sempre più consensi, grazie alle oscure atmosfere ricreate e alla perfetta geometria musicale con basso e sezione ritmica in primo piano, che andava a cozzare con le parole distaccate e sofferenti
    quasi recitate dalla voce baritonale e monocorde di Curtis. I Joy Division hanno dimostrato che esisteva qualcosa oltre il Punk urlato e confusionario, che si inorgogliva di una carica politica che di politica aveva ben poco oltre alla volontà di scagliarsi contro il sistema, contro le convenzioni, contro le istituzioni. Hanno dimostrato che l'anima indipendente del rock può avere una voce asettica e non gracchiante e che l'introspezione personale non è meno importante della denuncia sociale. Questo merito non fu solo dei Joy Division, è chiaro, ma sarà l'emblematica figura di Ian Curtis a dare voce allo scandagliamento dell'interiorità umana, in tutte le sue debolezze, senza autocompiacimento né autocommiserazione. Certo il dolore che emerge dalle liriche del cantante è devastante: distrutto dagli stessi suoi pensieri, apparentemente confusi eppure in realtà lucidissimi. E poi c'è la continua e sottile rievocazione dell'infanzia, come se per quel ragazzo poco più che ventenne l'età puerile fosse già troppo distante. L'infanzia vista come una campana protettiva che va sciogliendosi man mano che si diviene adulti e, di conseguenza, scoperti, isolati, esposti alle brutture del mondo e, soprattutto, di se stessi. Perché Ian non è di quelli che se la prendono col mondo intero, con le persone che ha intorno. Le attese di Ian sono tutte per se stesso: sta aspettando di migliorare, sta aspettando qualcosa di più per la sua vita, qualcosa che potrebbe arrivare unicamente dai suoi sforzi. E al tempo stesso, sta "aspettando una guida che arrivi a prenderlo per la mano"...come se avesse voluto smuoversi dal suo avvilimento stazionario, ma non ne aveva la forza, o il coraggio.

    "La morte si sconta vivendo" scriveva Ungaretti. Non fu così per Ian Curtis, che venne trovato morto, impiccato alla rastrelliera della casa dove abitava con Deborah. Aveva 23 anni. Quella sera aveva guardato il film "La ballata di Stroszek" e quando Deborah rinvenne il corpo il mattino seguente, il giradischi suonava "The Idiot" di Iggy Pop.
    Il suo testamento musicale e non solo, ce l'ha lasciato con l'album "Closer", che uscirà poco dopo la sua morte, con in copertina la tomba della famiglia Appiani al Cimitero monumentale di Staglieno di Genova, in una foto di Bernard Pierre Wolff. Mentre "Unknown Pleasures", loro primo album, era un diamante grezzo, bellissimo, tagliente, non rifinito, "Closer" è il diamante lavorato, smussato e levigato. Due bellezze tanto vicine quanto lontane, meravigliose entrambe, incomparabili nella loro differente perfezione.
    Due facce della stessa medaglia: l'animo di Ian Curtis.



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